Il fenomeno del re-branding è molto diffuso nel mondo dell’auto e non è nemmeno una grande novità. Tuttavia, ci sono dei casi in cui il gioco non vale affatto la candela…
Nel mondo in cui viviamo oggi il fenomeno del re-branding è così comune che tante volte non ci accorgiamo nemmeno di essere soggetti ad esso. Magari quel bellissimo orologio che avete al polso – per fare un esempio concreto – altro non è che una “copia” leggermente diversa di un marchio famoso che però costa molto di più.
Se non siete familiari con il termine, lasciateci fare un esempio utile per introdurre la storia di oggi: avete presente la Lancia Musa? Quella monovolume presentata una decina di anni fa identica alla Fiat Idea? Bene, quello è un esempio di re-branding avvenuto nell’ambito di un gruppo industriale che produce automobili.
Il fenomeno ha radici antiche, negli anni 80 e 90 poi ha conosciuto il suo picco con case come la malasyana Proton o la cinese Geely che hanno abusato parecchio della possibilità di produrre su licenza – o meno – automobili giapponesi più famose o perfino vetture provenienti dall’Europa.
Anche la General Motors ha spesso preso una vettura per poi proporla con diversi marchi senza cambiare quasi nulla nella meccanica del veicolo. Questi tre casi però sono i più evidenti e “scandalosi” se così vogliamo definirli in cui una casa si è sprecata pochissimo nel mettere in vendita un’automobile già esistente con un altro nome.
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Uno dei re-branding meno studiati della storia deve essere quello del 1993 operato da una casa giapponese molto famosa. In quel periodo, la Honda decise per qualche motivo che sarebbe stata una buona idea prendere la Land Rover Discovery, uno dei fuoristrada più amati del periodo, per appiccicarci il suo marchio.
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La collaborazione tra la Rover e la Honda permise lo scempio noto come Honda Crossroad che montava un poco brioso motore V8 ed era afflitta da gravissimi problemi di affidabilità, paradossale per una Land Rover. Per citare la stampa americana: “La Crossroad deve essere la più stramba, inaffidabile, Honda mai vista”. Bene…
Sono tante le auto – anche moderne – commercializzate dal gruppo che le ha ideate con vari marchi su mercati diversi: ed ecco la Opel Zafira che diventa Chevrolet o Subaru a seconda del caso e la Subaru Forester che fa l’esatto contrario e diventa Chevrolet, la Chrysler 300C che in Italia diventa una nuova, improbabile Lancia Thema e così via.
L’Isuzu Trooper ha addirittura cambiato marchio otto volte, contando pure il semi-sconosciuto badge della “Caribe”, una compagnia venezuelana. Ma l’auto con il record in merito di trasformismo è una utilitaria di segmento B della General Motors.
La Chevrolet Aveo infatti, introdotta ad inizio 2000, venne proposta con ben 16 marchi in giro per il mondo. Tra le versioni più assurde c’è l’ucraina Zaz Vida e la pessima Pontiac G3 Wave, ritenuta sempre citando la stampa americana: “L’esatto opposto di quello che serviva ad una marca blasonata come la Pontiac”.
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Il re-branding insomma raramente ha un buon effetto sul mercato e per questo, molte case si limitano ad utilizzarlo quando si parla di vendere auto sul mercato di paesi in via di sviluppo.
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