La carcassa dell’auto su cui viaggiava il magistrato palermitano quando fu ucciso a Capaci è arrivata a Roma. Un simbolo, affinché l’Italia non dimentichi.
Sono a Roma i resti dell’auto su cui viaggiava il magistrato Giovanni Falcone, quando fu fatto saltare in aria, all’altezza di Capaci. La carcassa della Fiat Croma si trova nel piazzale della Scuola di formazione e aggiornamento del personale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nella Capitale.
Quei resti non sono solo un’ostentazione della barbarie mafiosa. Sono anche un simbolo, affinché l’Italia non dimentichi mai. Negli anni, l’auto ha anche abbandonato la propria “casa” presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Con diverse mostre in giro per il Paese. Proprio per sensibilizzare soprattutto le giovani generazioni.
La Fiat Croma bianca, di proprietà del Ministero della Giustizia, da anni è di proprietà Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che si è occupata del restauro conservativo. E che la protegge con una solida teca. E un agente di scorta.
Erano tre le Fiat Croma blindate che viaggiavano nel convoglio che scortava Giovanni Falcone e che fu fatto saltare in aria. La prima era una Fiat Croma di colore marrone, la seconda (quella a bordo della quale viaggiava il magistrato) una Fiat Croma bianca. Infine, per terza, una Fiat Croma azzurra. I mafiosi di Cosa Nostra seguirono quelle auto chilometro dopo chilometro. Fino al momento in cui azioneranno il congegno esplosivo.
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E’ il 23 maggio del 1992 quando gli uomini di Cosa Nostra eseguono uno degli attentati che più hanno segnato la storia del nostro Paese. Falcone era infatti l’emblema della lotta alla mafia siciliana, in quel periodo potentissima. Con una mix di tritolo, RDX e nitrato d’ammonio i mafiosi fecero esplodere un tratto dell’autostrada A29. Erano le 17.57. A perdere la vita, oltre a Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anch’ella magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Una stagione di sangue e misteri. Solo 58 giorni dopo, a morire fu l’altro magistrato in prima linea nella lotta a Cosa Nostra e amico fraterno di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. E’ la strage di via D’Amelio, del 19 luglio 1992. Eventi drammatici, che hanno cambiato il corso e il volto dell’Italia. E su cui, ancora oggi, a distanza di decenni, non vi è una verità completa. Sono stati infatti condannati i mandanti mafiosi e gli esecutori materiali.
Tutti uomini di Cosa Nostra, tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma anche Giovanni Brusca, che avrebbe materialmente azionato il detonatore. Proprio quel Giovanni Brusca, poi divenuto collaboratore di giustizia e recentemente scarcerato dopo 25 anni di detenzione. Proprio in applicazione della legge sui “pentiti” voluta da Giovanni Falcone. Rimangono ancora nell’ombra, oscuri, i cosiddetti “mandanti occulti”, i pezzi dello Stato, che tanto a Capaci, quanto in via D’Amelio, avrebbero avuto un ruolo fondamentale. In combutta con Cosa Nostra.
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