Alboreto, uomo normale in un mondo anormale. A 20 anni dalla sua morte, riviviamo carriera e caratteristiche di un volto indimenticabile
25 aprile 2001, una data che tutti gli appassionati di automobili, non soltanto italiani, non riescono a scordare. Ben 20 anni fa, infatti, ci lasciava Michele Arboreto.
Per scoprire chi è, riassumendo, basterebbero poche parole. Ma noi preferiamo ricordarlo come merita, e quindi ci tuffiamo nei dettagli andando indietro nel tempo. Il buon Michele, dopotutto, era molto più del pilota innamorato delle auto da corsa.
Nato a Milano nel 1956, questa grande passione lo contagiò circa venti anni dopo, anche se l’inizio non fu dei migliori. Nel 1976 si iscrive alla Formula Monza, ma i risultati scarseggiano.
Nonostante ciò, il suo team, la Scuderia Salvati, lo sostiene tanto che nell’anno successivo prende parte alla Formula Italia ottenendo anche una vittoria. Presto esordisce in F3 di cui diviene campione europeo nel giro di un paio d’anni.
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Questo gli permette di essere seguito da Cesare Fiorio, che lo inserisce nel programma sportivo della Lancia con cui Alboreto prende parte ad alcune gare del Mondiale Prototipi.
Nel frattempo, continua il suo impegno nelle competizioni a ruote coperte: ben presto, fa il suo debutto in F1 parallelamente all’impegno in Endurance.
I primi tre anni, e anche quelli successivi al 1985, nella massima serie automobilistica regalano poche gioie al pilota italiano – unici acuti i primi posti a Las Vegas e a Detroit con la Tyrrell.
Con la Ferrari, invece, dopo un buon 1984 condito da una vittoria conquistata in Belgio, arriva un 1985 (quasi) da sogno.
1985. Un anno diverso. Un anno in cui un uomo normale prova a prendere il sopravvento di un mondo anormale. E per certi versi, ci riesce pure. In questa stagione arrivano due splendide vittorie in Germania e in Canada che fanno sognare tutti, dai tifosi alla Ferrari stessa.
Il sogno è ambizioso, che più ambizioso non si può. Ovvero battere la McLaren ed Alain Prost. Una speranza che dura gran parte della stagione ma che, infine, si dissolve come polvere trascinata dal vento.
“A Michele dobbiamo un mondiale” dirà Enzo Ferrari. E probabilmente è così. La McLaren, ad ogni modo, diventava sempre più competitiva mano a mano che ci si avvicinava allo sprint finale del campionato, quello decisivo.
A Maranello, per cercare di stare sul pezzo fino all’ultimo, pensano che la soluzione giusta sia quella di cambiare il fornitore delle turbine nel tentativo di aumentare le prestazioni dei motori della Rossa.
Il risultato finale è però un disastro. Si rompono infatti propulsori a ripetizione e negli ultimi cinque Gran Premi arrivano cinque ritiri per Alboreto, l’uomo che aveva accarezzato la gloria per gran parte dell’anno.
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Per lui quella fu l’ultima chance di conquistare il titolo iridato, per il cavallino rampante ci sarà da aspettare almeno fino al 2000 per vedere un pilota trionfare di nuovo in F1 sulla propria vettura – ce la farà Michael Schumacher, non uno a caso. Ma dal 1985, una lezione l’abbiamo imparata tutti.
L’uomo non ama le statistiche. Come spiegate, altrimenti, tanto amore e attaccamento per Alboreto che nel circus ha conquistato “solo” 5 vittorie? Eppure, tutti lo ricordano con affetto.
Non era Ayrton Senna o Schumacher, nemmeno Lewis Hamilton. Era un uomo normale, davvero normale, che aveva sfiorato un sogno come tanti altri.
Marito, padre, innamorato della moglie Nadia e delle auto da corsa, le stesse che lo hanno tradito quando, nel 2001, morì sulla maledettissima pista tedesca del Lausitzring in cui stava effettuando dei test con una Audi R8.
E allora che cosa lo ha reso unico? Probabilmente proprio la sua normalità: perché non scordatelo, per tutti era Michele, non un pilota di F1 in forze alla Ferrari. Semplicemente Michele. E complimento migliore, non glielo si può proprio fare.
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